Nella prima parte di questo articolo, tratto dal recente libro di Giovanna Sissa Le emissioni segrete (Sissa G., Emissioni segrete. L’impatto ambientale dell’universo digitaleBologna, Il Mulino, 2024), abbiamo visto come il processo di produzione dei dispositivi elettronici e anche il funzionamento della rete siano fonti di consumo energetico ormai enormi e in costante aumento, man mano che procede la… “digitalizzazione della vita”. Ragionando in termini di emissioni di gas serra conseguenti a tale utilizzo, nel primo caso parliamo emissioni incorporate e nel secondo di emissioni operative. Nella prima rientrano non solo quelli dovuti al processo produttivo, ma anche quelli necessari allo smantellamento e al riciclo dei prodotti giunti a fine vita. E ci occupiamo ora di quest’ultimo aspetto: ilrifiuti elettronicio “rifiuti elettronici”.
RIFIUTI ELETTRONICI, OVVERO: RITORNO ALLA TERRA
Non c’è prodotto, non c’è merce che prima o poi, in un modo o nell’altro, non ritorni alla terra sotto forma di rifiuto. E a questa legge, che ci hanno spiegato i grandi maestri del pensiero ecologico come l’americano Nicholas Georgescu-Roegen o qui in Italia Laura Conti e Giorgio Nebbia,[1] non fa eccezione il mondo digitale, con tutta la sua multiforme varietà di dispositivi personali, soggetti anche a un ritmo sempre più rapido di sostituzione per obsolescenza (e che non si lasciano ingannare dalle assicurazioni di aziende e istituzioni, come la Commissione Europea, sul tema impegno a superare le pratiche di obsolescenza programmata e ad adattare il design dei propri prodotti per il riciclaggio, la riparazione, ecc. Nel migliore dei casi si tratta… panni caldi).
I processi di riciclo e trattamento comportano anche l’utilizzo di risorse e quindi emissioni (sono da considerarsi anch’esse “emissioni incarnate”). In questo caso le emissioni sono determinate da processi industriali molto complessi che devono estrarre materiali riutilizzabili da ciascun dispositivo.
Bene, quello che troviamo, in questo caso, è questo dal punto di vista delle emissioni questa fase del ciclo di vita dei dispositivi elettronici sembra pesare molto meno, ma questa – sottolinea l’autore – non è una buona notizia: significa semplicemente che gran parte della massa di materiali Voi essere trattati adeguatamente. Anzi, miglioriamolo: non vengono trattati affatto. Le ragioni – spiega Sissa – sono tecniche ed economiche: i processi industriali di recupero dei materiali (anche pregiati) contenuti in un personal computer o in uno smartphone sono talmente complessi (considerando quanti pochi materiali ci sono da ripristinare) da finire per rendere il tutto antieconomico operare.
Le (poche) ricerche attuali parlano di una percentuale non superiore al 20% di materiale riciclato; tutto il resto è, semplicemente,… inviare in Africa o in qualunque altro paese disperato, posta coloniale (posta?) o semplicemente intendersi garantirsi un piccolo reddito a costo di chiudere gli occhi sugli effetti ecologici di questo “servizio”.[2]
Non c’è dubbio che, in questo caso, la tipologia dell’impatto ecologico è di diversa natura: infiltrazione di sostanze tossiche nelle falde acquifere sotto le grandi discariche (soprattutto piombo, cadmio, diossine…), avvelenamento di animali e vegetali, dal cielo, attorno a questi gironi infernali si accumula l’ebbrezza delle popolazioni che spesso muoiono alta tecnologia vere e proprie economie informali che consentono, in contesti sociali molto poveri, opportunità di sopravvivenza per enormi masse e persino arricchimento per piccoli strati di umanità altrettanto tossica. Se volete farvi un’idea di queste realtà, potete guardare la gigantesca discarica di Agbogbloshie (Accra), in Ghana, dove migliaia di persone vivono e lavorano attorno a questo terribile… Attività commerciale.[3]
DIBATTITI ECO-DIGITALI
Giovanna Sissa dedica pagine abbastanza corrette a un argomento che, soprattutto qui, sembra essere di grande interesse: ovvero i dibattiti che attraversano il mondo dei ricercatori e degli studiosi che hanno deciso di avventurarsi in questo campo. Valutare/quantificare la quantità di emissioni di gas serra determinate dall’attività generale del mondo digitale è certamente un compito molto difficile e scivoloso, soprattutto in termini di attività produttive (e quindi di emissioni incorporate), considerando anche la durata e la diffusione spaziale dell’attività industriale filiere coinvolte, la scarsa chiarezza dei dati forniti dalle aziende sui consumi, il fatto che infatti esiste una pressione crescente delle energie rinnovabili nella produzione di energia elettrica che spesso, per quanto difficile sia stimabile, per ‘Non si parla in tutto ciò di una selva di strategie, alcune del tutto fraudolente, che permettono a molte aziende ICT di considerarsi “a impatto zero” (non entreremo qui nei dettagli, che il lettore potrà trovare nel libro).[4] Ciò che va notato, però, è che, a fronte di queste oggettive difficoltà, lo sforzo di ricerca appare molto lasso.
È interessante scoprire, ad esempio, che sono solo tre gli studi significativi in questo campo nell’ultimo decennio: uno nel 2015 e due nel 2018: due di questi sono realizzati anche da ricercatori di aziende ICT (Huawei 2015 e Ericcson 2018 ), e quindi viziato da conflitti di interessi, e unico in ambito accademico (2018). Non sorprende, quindi, che ci troviamo di fronte a una notevole quantità di incertezza quando cerchiamo di determinare l’entità di queste emissioni.
E ora ho una domanda: questa incertezza potrebbe derivare non solo dall’oggettiva complessità della questione, che è fuori dubbio, ma anche dalla scelta stessa, ad esempio delle istituzioni universitarie, di Voi impegnarsi (cioè non investire risorse) in questa direzione? E che preferiamo lasciare quest’area così com’è terra (intenzionalmente) sconosciutoper non disturbare troppo il “Digital Controller”? Lo suggerisce la stessa autrice, quando invita a non “pensare che siamo in presenza di fenomeni sconosciuti: le quantità possono essere migliorate, rese più attuali, più precise e più trasparenti”. Dipende dalla volontà di farlo e dalle risorse a ciò dedicate.”[5]
————-
C’è questo mondo “digitale” che stiamo costruendo intorno a noi (e sempre più dentro di noi), insomma, non è affatto “immateriale”, come una vasta letteratura sociologica e filosofica ha teso e tende a farci credere e l’uso linguistico sconsiderato continua a suggerire;[6] è parte eterna di quell’enorme “tecnosfera” che gli uomini hanno sempre dovuto costruirsi attorno, ma che, dalla Rivoluzione Industriale in poi, e soprattutto dall’inizio del XX secolo, ha assunto una dimensione tale da influenzare la vita stessa. sulla terra e ora un pericolo per la sopravvivenza dell’uomo.
Le tecnologie di rete, apparentemente eteree, che secondo la filosofia attuale sarebbero ormai costanti della nostra stessa vita, sembrano disciolte in noi, nella nostra carne e nel nostro spirito (mi riferisco all’immagine disulla vitaproposta da Luciano Floridi), non esiste infatti una parte secondaria di questa tecnosfera materialissima e inquinante (e sempre più pesante).[7] Come le ferrovie o le autostrade.
Quando “accendiamo” internet e facciamo qualcosa online, ormai sempre più spesso, inquiniamo, anche se non sentiamo stridere i motori, o non vediamo uscire nuvole di fumo da qualche parte.
E lo stiamo diventando sempre meno verde e sostenibili, come ci fanno credere.
Siamo ancora parte del problema e non della soluzione.
(2/va bene)
NOTA
[1] Nebbia scrive, ad esempio, con la sua consueta chiarezza, che «non tutti i “beni materiali” scompaiono dopo l’uso. Ogni bene materiale – dal pane alla benzina, dal marmo alla plastica – ha una sua “storia naturale” che inizia in natura, attraversa processi di produzione e consumo e riporta indietro i materiali, dopo averli modificati, in forma gassosa, liquida o solida, di nuovo in. al cielo, alla terra, ai fiumi e ai mari. Inoltre, la capacità ricettiva di questi corpi naturali diminuisce man mano che aumenta la quantità di rifiuti loro presentati e man mano che il “progresso tecnico” rende tali rifiuti sempre più estranei agli stessi corpi riceventi, e per loro difficili da assimilare. (Giorgio Nebbia, Bisogni e risorse: trovare un equilibrioIn NOVA. Enciclopedia dell’UTET. Scenari del 21° secoloTorino, Utet, 2005, p. 36).
[2] Questo è ciò che la Cina ha fatto per molti anni, nell’ambito del suo percorso di integrazione nel mercato globale, fino a quando, a causa della crescita del suo mercato interno e dei suoi consumi e della rilevanza degli impatti ambientali e delle relative proteste, ha ostacolato ( con una serie di misure tra il 2018 e il 2021) importando “rifiuti stranieri”, gettando letteralmente nel panico le società industriali occidentali. Guardate l’onestà espressa in questo articolo dello stesso “Sole 24 Ore” dell’epoca: Jacopo Giliberto, A cena bloccando l’importazione dei rifiuti, riciclando il caos in Europa“Il Sole 24 Ore”, 13 gennaio 2018,
In questo specifico contesto – tra l’altro – possiamo vedere concentrato il comportamento economico generale del grande paese asiatico che, avendo accettato di sottomettersi per un certo periodo alle “regole” della globalizzazione neoliberista guidata dagli Stati Uniti (per ai fini del proprio sviluppo nazionale), ha ripreso le redini della propria sovranità. Ed è per questo che il cosiddetto Occidente gli ha ormai dichiarato guerra (per ora, fortunatamente, solo sul piano commerciale).
[3] Per avere un’idea della realtà della discarica suburbana di Agbogbloshie (Accra, Ghana), potete guardare alcuni documentari online, ad esempio quello prodotto da “InsideOver”: Agbogbloshie, vittime del nostro benessere,
[4] Vedi Giovanna Sissa, Emissioni segretecit., pag. 105 e segg.
[5] Là, pag. 113.
[6] Su questa “immaterialità” dell’ideologia contemporanea mi sono soffermato in: Toni Muzzioli, Il corpo di Internet Sulla “immaterialità” della società digitale“Ideeformazione”, 10 settembre 2023,
[7] In un articolo pubblicato su “Nature”, un gruppo di ricercatori del Weizman Institute of Science (Israele) ha calcolato che il 2020 sarà l’anno in cui la massa di artefatti umani (“massa antropica”), in termini di peso, andrà oltre tale cifra. biomassa, cioè tutti gli esseri viventi sul nostro pianeta. Cioè: 110 miliardi di tonnellate contro cento miliardi (vedi Sofia Belardinelli, Il pianeta delle cose“Il Bo vivente. Quotidiano dell’Università di Padova”, 28 dicembre 2020, ).