In poche parole, “innovazione”, nel senso letterale, significa introdurre qualcosa di nuovo. Sappiamo però benissimo come questa sia in realtà un’espressione assiologicamente carica; fa riferimento cioè a una precisa idea di valore per cui tendiamo a pensare all’innovazione come qualcosa di positivo in sé.
Infatti, frasi che fanno riferimento al “nuovo” e all’innovazione, soprattutto tecnologica, infestano la retorica di programmi politici di ogni tipo e negli ultimi anni sono state sistematicamente collegate al digitale. Con il tramonto delle grandi narrazioni del Novecento, l’ideologia digitale, l’ultima almeno in ordine cronologico (Balbi 2023), ha contribuito a rafforzare il mito dell’innovazione tecnologica come obiettivo prioritario e di per sé desiderabile. Come problematizzare quella che secondo alcuni si configura come una vera e propria ossessione collettiva? Le possibilità sono molte. Tra questi, si annovera il porre al centro dell’interesse pubblico alcune attività che sembrano avere finalità significativamente opposte all’innovazione: laddove l’innovazione è un atto peculiare che, pur introducendo qualcosa di nuovo, allo stesso tempo fa qualcosa di obsoleto, di riparazione e manutenzione , invece, sono pratiche che mirano a far durare le cose un po’ di più.
Inversione delle infrastrutture
Per molto tempo la storia delle tecnologie ha pensato all’innovazione come motore del progresso e ha quindi motivato una narrazione lineare dello sviluppo storico. Si tratta quindi di una serie di grandi invenzioni che si affermano in virtù della loro eccellenza funzionale e che, di conseguenza, rendono obsoleti i dispositivi precedenti, relegandoli al regno dell’antichità.
Un dispositivo concettuale che rafforza l’idea della storia come fatta da grandi uomini dalle caratteristiche eccezionali. Tuttavia, a partire dagli anni ’80 gli studi su scienza e tecnologia (Studi scientifici e tecnologiciSTS) ha focalizzato l’attenzione su ciò che, in questi racconti, veniva effettivamente cancellato, o perché spiacevole o perché considerato luogo comune e quindi banale. Ricerche sulle infrastrutture e su quelle dedicate alle attività di riparazione e manutenzione (studi sulle infrastrutture e manutenzione e studi di riparazione) fin dall’inizio avevano l’ambizione di provocare una sorta di inversione della figura del territorio. Si tratta, in altre parole, di spostare in secondo piano ciò che solitamente attira l’attenzione (l’ultima innovazione tecnologica) e portare in primo piano gli aspetti meno evidenti del discorso comune – il fallimento, il frustrante o ciò che si ripete ma consente ai singoli strumenti di esistere. Mentre “infrastruttura” può essere così banale da sembrare noiosa, “tecnologia”, al contrario, è un concetto che punta sulla novità. […].
Abbiamo la dannosa abitudine di isolare le parti più brillanti, più brillanti, più nuove o più spaventose del nostro ambiente e di chiamarle ‘tecnologia’, trascurando invece le parti più vecchie e apparentemente più noiose”, sebbene sia “dove avviene gran parte del duro lavoro” ( Peters 2015, pag.
Per “infrastruttura” si intende solitamente un complesso di elementi materiali e immateriali costruiti dall’uomo che soddisfano i bisogni e forniscono un servizio considerato di base. Pensate all’infrastruttura energetica che alimenta la maggior parte delle cose che usiamo ogni giorno o alle infrastrutture stradali o idriche. Da questo punto di vista, la storia della tecnologia appare meno come una serie di cambiamenti rivoluzionari e più come un processo duraturo e su larga scala, fatto di continuità ma anche di fallimenti, rotture e difetti. La storia dell’infrastruttura ferroviaria, ad esempio, comprende anche un disastro ferroviario.
Rotture e fallimenti hanno quindi valore epistemico.
Sono operatori di problematizzazione e visibilità: ci chiedono di affrontare – cioè di intervenire, di fare scelte sul futuro, identificare responsabilità, comprendere e ricreare i processi – ciò che può essere dato per scontato nel normale corso dell’azione.
Durante una pausa, il singolo oggetto inceppato e il complesso sistema di interdipendenze in cui è incastonato vengono messi in discussione. Se, ad esempio, la nostra automobile si rompe, siamo costretti a interrogarci sul suo funzionamento interno: qualcosa che prima non era problematico, che funzionava come un tutto organico, si manifesta come un insieme di parti che hanno anche una propria dinamica e distribuzione (cos’è quel rumore? La cinghia di distribuzione è usurata? Ma siamo costretti anche a interrogarci su questioni altre che evidentemente non riguardano l’auto: non possiamo andare a prendere i nostri figli a scuola o i nostri cari all’ospedale e non ci sono trasporti pubblici in quelle zone, quindi magari ci rendiamo conto della riduzione dei servizi pubblici che prima non ci interessava.
Prenditi cura delle cose
Un’auto in panne ci costringe a interrompere la nostra vita quotidiana e ad andare dal meccanico per la riparazione. Certo: di fronte a questo evento inaspettato potremmo colpevolizzarci, magari rimproverarci di non preoccuparcene abbastanza.
Tuttavia, sebbene riparazione e manutenzione siano spesso termini correlati, si riferiscono ad attività molto diverse. Secondo i sociologi francesi Jérôme Denis e David Pontille (2022), ad esempio, la manutenzione è proprio ciò che lancia la sfida più radicale all’ideologia dell’innovazione. Entrambi hanno un obiettivo fondamentale in comune: allungare la vita delle cose. Ma ci sono alcuni elementi che avvicinano chi ripara a chi innova: i primi devono, infatti, riportare la cosa al suo funzionamento originario e, spesso, ci riescono in virtù di specifiche conoscenze tecniche. Riparare, quindi, può avere anche un aspetto eroico-salutare e, agli occhi dei non addetti ai lavori, anche un po’ magico. Il caso della manutenzione, però, è molto diverso: pensiamo ai servizi di pulizia di spazi pubblici e privati, che sembrano svolti da donne e uomini senza qualità. Insomma, l’innovazione e la riparazione avvengono ancora in tempi straordinari, mentre la manutenzione è necessariamente ordinaria, ripetitiva, routinario e, come spesso accade in questi casi, tende a far sparire dalla vista le persone che se ne occupano.
Hirayama (Kōji Yakusho), personaggio principale Giorni perfetti di Wim Wenders, lavora come manutentore di bagni a Tokyo e non degna nemmeno di uno sguardo se qualcuno entra nel bagno mentre lo sta pulendo. E non si tratta solo della tipica discrezione giapponese: il sociologo cognitivo Eviatar Zerubavel (2024, 52) menziona una scena molto simile riscontrata in Cameriera a Manhattan sostenere che le persone che svolgono lavori di pulizia sono spesso viste come “sfondo […]. Soffrono l’emarginazione attenzionale […] solitamente associato all’essere di status inferiore.” Tuttavia, questa invisibilità e questo misconoscimento sociale del mantenimento e delle persone ad esso associate equivale a un’ampia diffusione sociale e, soprattutto, a un’enorme interconnessione.
In primo luogo, tutte le cose sono intrinsecamente fragili – richiedono una sorta di manutenzione – e quindi siamo tutti coinvolti in questa attività in vari modi. Inoltre, è anche possibile sostenere, come fanno Denis e Pontille, che per le nostre vite la manutenzione è ancora più importante dell’innovazione, poiché riguarda più il registro della riproduzione che la produzione.
Proviamo a immaginare, ad esempio, un futuro completamente privo di innovazioni nel contesto dello spazio urbano in senso lato (nessun cambiamento nell’edilizia, nei trasporti, nei sistemi fognari o idrici, ecc.). Anche in questo falso scenario, potremmo continuare a costruire, al netto dell’utilizzo delle risorse, per migliaia di anni.
Viceversa, basta sospendere per qualche settimana le attività di manutenzione per mandare in crisi qualsiasi città. Anche creando il miglior progetto possibile, nato dalla mente dei più creativi arcivescovosenza manutenzione, andrebbe in rovina in brevissimo tempo (anche se anche con un progetto ordinario, ad esempio un complesso urbano, è possibile ottenere buoni risultati se ben curato nel tempo).
Informazioni sulla politica di manutenzione
Eppure, tutta l’attenzione e il riconoscimento sociale ed economico vanno nella direzione del gesto creativo e innovativo[1]. Possiamo fare qualcosa per contrastare questa tendenza apparentemente inevitabile? Qual è la rilevanza politica del nostro approccio alla manutenzione?
Il sottotitolo del libro sopra citato di Denis e Pontille, appunto, è Politica di manutenzione e secondo i due autori, guardare agli interventi di manutenzione permette di criticare la visione molto ristretta dell’economia circolare che si concentra sul circuito produzione-uso-riciclo, lasciando intatta la struttura del sistema e le sue disuguaglianze. Inoltre, mettere in primo piano il lavoro di manutenzione permette di dare ulteriore forza a due lotte politiche molto significative. Il primo è contro l’obsolescenza programmata e tutti i processi di chiusura informatica e tecnologica (“black-boxing”). La seconda richiama la necessità di un maggiore riconoscimento, simbolico ed economico, del lavoro di manutenzione, essenziale per il mantenimento del sistema sociale. Infine, su un piano più astratto ma non per questo meno importante, guardare alla manutenzione ci permette di cambiare la nostra visione delle cose, il nostro rapporto con esse e quindi, in ultima analisi, noi stessi. La ricerca sociologica che ha studiato gli addetti alla manutenzione (sia essa la metropolitana di Parigi, il sistema idrico o il museo) ha molto da insegnarci: si tratta di sviluppare una sensibilità diversa verso le cose, più attenta alla dinamica della materia, alla sua fragilità, invecchiamento e degrado. Un rapporto che è esattamente l’opposto dell’uso dei beni: non si tratta solo di usare le cose, ma di prendersene cura e quindi di riconoscere che il nostro benessere dipende anche dal loro mantenimento.
Prendersi cura delle cose ha molto a che fare con la cura delle persone e dei sistemi viventi (Jackson 2017), infatti a volte ci prendiamo cura degli altri mantenendo le cose da cui dipendiamo. La politica di mantenimento esprime anche un invito a riconoscere e ad essere responsabili delle nostre reti di interdipendenza. Perché dipendiamo gli uni dagli altri, ma anche – perché no? – delle cose.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Balbi, G. (2022), L’ultima ideologia. Una breve storia della rivoluzione digitale, Più tardi, Barry.
Denis, J., Pontille D. (2022), Prendersi cura delle cose. Politiche di manutenzioneLa Découverte, Parigi.
Jackson, SJ (2017), Velocità, tempi, guasti alle infrastrutture, tempi di manutenzione e riparazione, in J. Wajcman e N. Dodd (a cura di), La sociologia della velocità: tempi digitali, organizzativi e socialiOxford University Press, New York, pp. 169–85.
Peters, JD (2015), Le strane nuvole: verso una filosofia dei media elementari, University of Chicago Press, Chicago.
Serubavel, E. (2024), Nascosto alla luce del sole. La struttura sociale dell’irrilevanza, Edizioni PM, Varazze.
NOTA
[1] In un contesto artistico specifico, vedi le opere di Mierle Laderman Ukeles e il suo “Manifesto for Maintenance Art, 1969!” (si veda al riguardo anche Denis e Pontille 2022, 28-33).