Ancora solo pochi anni fa, tutti sapevamo che nei laboratori della Silicon Valley – ma non solo, anche in laboratori di Paesi meno trasparenti – si lavorava a forme di intelligenza artificiale; ma in fondo, se non si faceva parte della schiera degli addetti ai lavori, tutto questo tema rimaneva confinato come una questione ancora lontana e più adatta alle fiction.
E invece, come una bomba, nel dopo pandemia l’AI è esplosa nelle vite di tutti noi – lasciando i più attoniti e frastornati – e di certo andrà a cambiare professioni e modi di lavorare che abbiamo sempre ritenuto di esclusiva pertinenza dell’intelligenza umana.
L’intelligenza artificiale non si limita a processare a velocità inconcepibili da mente umana miliardi di dati, con l’AI si possono creare immagini, testi. Insomma, sconfinare nei territori di pertinenza dell’arte, anche se è difficile definire in modo certo e univoco cosa sia l’arte.
Abbiamo quindi pensato di chiedere a tre persone che fanno parte del gruppo di Controversie e che usano l’intelligenza artificiale per creare immagini, quale sia il loro rapporto con la “macchina” e con il processo creativo.
La prima specifica domanda fatta è la seguente: Creare un’immagine con l’AI è un atto creativo?
Vediamo le risposte…
Matteo Donolato – Laureando in Scienze Filosofiche, professore e grafico di Controversie
Credo proprio di sì: dal punto di vista umano, la generazione di immagini con l’Intelligenza Artificiale non è un atto così passivo come forse potremmo pensare, in quanto rappresenta un vero lavoro artistico e creativo. Inoltre, in questa interazione tra macchina e persona in carne e ossa non c’è una protagonista assoluta, ma entrambe collaborano per il raggiungimento dell’obiettivo finale: le due intelligenze, dunque, operano insieme, senza una preponderanza di una sull’altra. Tuttavia, a prima vista si può ritenere che l’I.A. sia la vera “artista”, e si potrebbe inoltre immaginare che esegua tutto il lavoro, con l’essere umano che semplicemente impartisce dei comandi e aspetta che essa “faccia la magia”. Ragionando così, sottovalutiamo (e di molto) il nostro potere di intervento, concedendo tutto il credito della prestazione creativa alla macchina; le cose, in realtà, non sono così semplici, in quanto è l’artista umano a dettare le regole del gioco. Infatti, questi stabilisce tutta una serie di fattori molto importanti come, per esempio, il comando iniziale (o prompt), lo stile che avrà la sessione immagini, il tempo dedicato a essa, il numero di tentativi, le eventuali variazioni o i dettagli che tali rappresentazioni devono possedere, con la macchina che esegue. Alla fine del lavoro, quando l’I.A. avrà realizzato le proprie opere, è l’artista umano che garantisce l’adesione di essa a ciò che si era stabilito nel prompt; inoltre, è nuovamente lui (o lei) a decretare se il risultato ottenuto sia soddisfacente, in linea con le volontà iniziali. Insomma, l’intelligenza umana è la prima e ultima arbitra dell’immagine, colei che inizia e orienta la sessione di lavoro e che, alla fine, giudica l’operato dell’I.A.; siamo noi, quindi, a tessere i fili, a stabilire la qualità artistica e creativa del prodotto restituito dalla macchina. Quest’ultima costituisce, pertanto, il mezzo attraverso cui la nostra creatività e la nostra immaginazione si possono esprimere. In conclusione, l’I.A. rappresenta uno strumento, come tanti altri, a supporto dell’intelligenza e della fantasia umane…
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Paolo Bottazzini – Epistemologo, professionista del settore dei media digitali ed esperto di Intelligenza Artificiale
Credo sia legittimo attribuire un riconoscimento di creatività alla generazione delle immagini con IA in ugual misura a quanta ne è stata riconosciuta agli artisti degli ultimi decenni. Il ruolo dell’artista, come è stato incarnato da personaggi importanti come Hirst o Kapoor, consiste nell’elaborazione del modello concettuale dell’opera, non nella sua realizzazione pratica, che per lo più è affidata ad operatori artigianali specializzati. Anche la produzione con l’IA richiede una gestazione concettuale che prende corpo nel prompt da cui l’attività dell’IA viene innescata. Si potrebbe discutere del grado di precisione cui arriva il progetto degli artisti “tradizionali” e quello che è incluso nelle regole che compongono il prompt: ma credo sarebbe difficile stabilire fino a che punto la differenza sia qualitativa e non semplicemente quantitativa. Più interessante sarebbe valutare se il risultato dell’operazione condotta con l’IA sia arte, al di là dei meriti di creatività: anche i pubblicitari si etichettano come “creativi”, e di certo lo possono essere – però difficilmente saremmo disposti a laureare tutti gli annunci pubblicitari come “arte”.
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Diego Randazzo – Artista visivo
Molto semplicemente: dipende.
Penso che anche rimanendo ancorati alla tradizione, addentrandosi nella miriade di produzioni odierne, realizzate con le canoniche tecniche artistiche (la pittura, la scultura, la fotografia, etc.) sia piuttosto difficile trovare “l’opera d’arte”. Semplificando, ma non troppo, oggi anche le risultanze di tecniche storicizzate spesso si avvicinano più alle forme della ‘tappezzeria’, o anonimo complemento d’arredo, che al manufatto artistico, testimone di senso.
Il semplice atto creativo non ha nulla a che fare con l’elaborazione e produzione artistica, se non ambisce a costruire un percorso di senso e di ricerca progettuale.
Questa piccola premessa vuole essere una provocazione per far riflettere su un principio ancora oggi saldo e indissolubile: la tecnica e lo strumento in sé sono ‘oggetti monchi’, se privati di un valore che solo il radicamento concettuale nella contemporaneità può attribuirgli. Non mi piace snocciolare citazioni, ma credo che Enzo Mari, quando nel 2012 sentenziava ‘’Non esiste oggi parola più oscena e più malsana della parola creatività. Si produce il nulla, la merda con la parola creatività’’ aveva plasticamente intercettato certe tendenze che, di lì a poco, avrebbero preso il sopravvento. La creatività, intesa come paradigma vincente e performante per risolvere ogni questione di non facile risoluzione.
Sgombrato quindi il campo dalle generalizzazioni, su cosa sia o non sia un atto di creatività, si può sicuramente affermare che l’IA sia uno strumento potentissimo e, se usato finemente, con intelligenza e cura, può condurre alla creazione di un’opera d’arte.
Ma cerchiamo da subito di fare dei distinguo: l’IA deve rimanere uno strumento e non una finalità. Nello specifico – e questa è una mia personalissima teoria – il creativo/artista di turno non può pensare di fermarsi, dopo qualche interrogazione, all’output grezzo generato dall’IA, convincendosi di aver dato vita a qualcosa di unico, affascinante e interessante.
Come avveniva già nella tradizione classica della pittura, le influenze e lo studio sono fondamentali; una volta si viaggiava, gli artisti si incontravano, si contaminavano scambiandosi tecniche e saperi, mentre oggi si può attingere ad un patrimonio di dati sconfinato in rete. Il rischio omologazione è altissimo, perciò è fondamentale conoscere e confrontarsi con il passato, il presente ed immaginare un possibile futuro che tenga insieme tutto. Quindi passato, presente e futuro sono i fondamentali per poter imbastire una progettualità, non finalizzata a costruire ‘immagini nitidissime di mondi impossibili e surreali’ – come vediamo nel repertorio più di tendenza nella generazione di immagini con l’IA – bensì volta a costruire delle riflessioni sui processi narrativi e sulla storia delle immagini stesse.
E chi è che oggi può fare tutto questo con consapevolezza, senza farsi ingabbiare dall’effetto decorativo, dal rischio tappezzeria? Senza ombra di dubbio è l’Autore, l’unica figura che può padroneggiare questi strumenti, mettendoli al servizio della propria poetica.
Riprendo brevemente il tema sull’autorialità tratto da una precedente intervista rilasciata sempre su questo blog:
‘’Autore è colui che interroga e, soprattutto, rielabora e reinterpreta secondo la propria attitudine il risultato dell’Intelligenza artificiale. La macchina fa le veci del ricercatore: mette insieme e fonde tantissimi dati e, in ultima istanza, restituisce un ‘abstract grezzo’. Quell’abstract non può rimanere tale. Deve essere decostruito e manipolato dall’artista per assurgere ad opera d’arte. L’IA, come processo generativo, è quella cosa che sta in mezzo, tra il pensiero, l’idea iniziale e l’opera finale. Tutto qui. Non è semplificazione, è come dovrebbe essere inteso il ruolo dell’intelligenza artificiale nella creazione artistica.’’
Quest’opera dal titolo 24 intime stanze è un esempio pratico della mia idea di utilizzo di Ai in campo artistico e soprattutto della necessità di far emergere una concatenazione virtuosa tra passato, presente e futuro: dall’utilizzo della cianotipia (antica tecnica di stampa a contatto) e la pittura ad olio, all’uso dell’I.A. per elaborare le referenze del soggetto protagonista.
24 intime stanze / dalla serie ‘Originali riproduzioni di nuovi mondi’ (Opera finalista al Combat Prize 2024, nella sezione pittura), Cianotipia e pittura a olio su tela grezza, 120x100x2 cm, 2024
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Non c’è dubbio che queste tre risposte siano estremamente stimolanti e che vi si possa rintracciare un minimo comune denominatore che le lega: l’idea che l’IA sia solo un mezzo, per quanto potente, ma che l’atto creativo resti saldamente appannaggio di colui che ha nel suo animo (umano) l’obiettivo concettuale.
Ottenere un risultato con l’IA si delinea, qui, come un vero atto creativo, che, però e ovviamente, non è detto che si trasformi in arte, ovvero in una manifestazione creativa in grado di dare emozione universale.
In termini più concreti: molti di noi, forse, potrebbero avere “nella testa” La notte stellata di Van Gogh (giusto per fare un esempio), ma la differenza tra la grandissima maggioranza di noi e il genio olandese è che non sapremmo neppure lontanamente “mettere a terra” questa intuizione.
Con l’IA, a forza di istruzioni che la macchina esegue, potremmo invece, avvicinarci al risultato di Vincent?
Se fosse così, in che modo cambierebbe l’essenza stessa dell’artista?