Le indagini presso il Museo Criminologico di Roma dove lo scheletro oggi è conservato – STUDY CENTER for LEGALITY SECURITY and JUSTICE


Il luogo dove ritenevamo di poter trovare degli altri indizi per la soluzione del nostro “giallo” era ovviamente il luogo dove lo scheletro della Dama Bianca è conservato dal 1934. La prima sede dell’attuale Museo Criminologico venne inaugurata il 19 novembre 1931 e trovò spazio presso la vecchia prigione seicentesca delle Carceri Nuove di via Giulia, fatta costruire da Papa Innocenzo X. Nel 1968 il Museo Criminale venne dismesso poiché i locali vennero convertiti ad altro uso, cosicché i reperti furono riposti temporaneamente presso il deposito del carcere romano di “Regina Coeli”. La sede più recente, riaperta nel 1975, con la dizione più scientifica di “Criminologico”, trovò collocazione nel Palazzo del Gonfalone risalente al 1827, fatto costruire da Papa Leone XII per destinarlo a casa di correzione per minorenni. Lentamente abbandonato sino alla chiusura, nel 1994 venne riaperto quale museo storico, sempre comunque dipendente dal Ministero di Grazia e Giustizia, contenente strumenti di supplizi in uso sino al primo Novecento. Come si legge sul sito ufficiale dedicato

«… Il Museo Criminologico nasceva nel 1930 e con esso l’Amministrazione penitenziaria realizzava un progetto che già negli ultimi decenni dell’Ottocento era considerato un utile supporto per lo studio del sistema penale e penitenziario, oltre che strumento scientifico per la formazione di funzionari e magistrati e di divulgazione al tempo stesso. Per alcuni decenni il Museo Criminologico ricevette grandi apprezzamenti anche all’estero grazie alla ricchezza del patrimonio storico e scientifico che custodiva; le vicende storiche successive lo costrinsero ad un graduale ridimensionamento fino alla chiusura che avvenne nel 1968. Nel 1991 fu avviato il progetto di ristrutturazione completato nel 1994 …»

Il museo nel corso degli anni ha acquisito una certa notorietà, anche internazionale, attirando visitatori provenienti da diverse parti del mondo e raccogliendo ottime recensioni. Nel 2016 però è stato chiuso, sembrerebbe definitivamente, poiché a detta dei responsabili della struttura i locali che lo ospitano in via del Gonfalone, sarebbero destinati ad uffici di alti funzionari del Ministero della Giustizia che ambirebbero alla posizione centralissima e prestigiosa dello stabile ottocentesco.

Il sopralluogo al Museo

Nel 2019 gli autori del presente saggio, dopo una strenua lotta contro la burocrazia, vinta grazie all’italico ingegno, hanno effettuato un sopralluogo al museo criminologico e hanno potuto osservare (informalmente) da vicino lo scheletro della Dama Bianca e il suo allestimento. La didascalia del pannello che illustra la cella con lo scheletro di Poggio Catino, protetto da una lastra di vetro, nella sua ultima formulazione, così riporta, (anche in inglese):

«L’identità dello “scheletro di Poggio Catino” è quanto mai incerta. L’unica notizia storicamente documentabile è che lo scheletro fu rinvenuto nel 1933, a Poggio Catino, paese in provincia di Rieti, all’interno di un torrione crollato di un palazzo baronale. La scoperta fu fatta da Vincenzo Biraghi, la cui famiglia fu per molti anni proprietaria del palazzo. Molti studiosi cercarono di ricostruire l’identità e la storia dello scheletro, attingendo da documenti d’archivio e leggende popolari. Fu cosi accertato che si trattava dello scheletro di una donna, di circa trent’anni, vissuta nel XVI secolo. Le cronache riportarono diverse versioni, mai peraltro riscontrate da dati certi. Biraghi, che aveva assistito al ritrovamento, raccontava che lo scheletro era stato rinvenuto in una cella, sotto le macerie del mastio, steso a terra con le braccia intorno alle gambe ripiegate, con ceppi ai polsi e alle caviglie. Tra le leggende fiorite intorno alla donna, alcuni scrissero che ella stata presa in ostaggio dagli Orsini che nel XVI secolo avevano espugnato la fortezza. Altri optarono per una storia romantica, attribuendo alla donna il ruolo di castellana e compagna del potente Geppo Colonna, signore di Poggio Catino. Innamoratasi, ricambiata, del castellano di Poggio Catino, per vendetta il Colonna l’aveva fatta rinchiudere nella cella sotterranea e fatta morire d’inedia. Quale sia la vera storia, nessuno può dirlo, resta il fatto che alla donna sconosciuta fu riservata una morte davvero terribile. Provenienza: Poggio Catino, Famiglia Biraghi, 1934».

Tale descrizione, che collima con quella riportata anche nel sito internet ufficiale del Comune di Poggio Catino, è sempre la stessa anche all’interno della pubblicazione “Museo Criminologico” a cura di A. Borzacchiello, 2003, quest’ultima allora responsabile scientifico del Museo. Ancora più sfuggenti le notizie sullo scheletro che compaiono in “Guida al Museo Criminologico di Roma”, Roma, 1975, sebbene offrano interessanti spunti di riflessione: «Sulla destra, prima di entrare, è stato ricostruito, un vano dove fu trovato lo scheletro di una donna murata viva, non identificata, con ceppi di ferro ai polsi e ai piedi ».

Considerazioni sull’allestimento museale.

Secondo le versioni letterarie che ricordano il rinvenimento ed il successivo trattamento, lo scheletro fu rimosso unitamente a tutta la compagine strutturale in cui lo stesso giaceva: pare una misura un po’ estrema che viene eseguita molto raramente e, di solo, per contesti archeologici di ben maggior portata. Tuttavia, D’Amelia, riferisce senza indugio, che «venne da Roma un’ispezione inviata dal Ministero di Grazia e Giustizia che ordinò la rimozione o meglio l’asporto radicale di quanto rinvenuto con le quattro pareti della cella, lavoro eseguito da abili esperti in materia. E tutto venne caricato e trasportato a Roma nel museo».

Sulla rete Internet si trovano varie foto dell’esposizione dello scheletro, una compare anche nel precitato catalogo del Museo del 2003 ma nel catalogo del 1975 della Dama Bianca non vi è traccia, né descrizione né foto: curioso particolare!

Abbiamo scelto immagini che, pur diverse tra loro, riconducono a due fasi distinte dell’allestimento della cella e dell’installazione dello scheletro. L’angolazione delle due foto è differente e pur rimanendo inalterata la descrizione del reperto sopra eseguita si notano, tuttavia, alcune divergenze. Ve le proponiamo con una descrizione delle varie differenze riscontrate:

Foto A) il muro di fondo della nicchia quadrangolare è costituito da grosse bozze di pietra chiara, travertino o calcare, ed una finestra cieca, con cornice, quadrangolare dotata di inferriata a maglia quadrata. I blocchi di pietra sono di forma cubica, ben commessi l’uno sugli altri. Dalla cornice della finestra pende una piccola lanterna ad olio con lungo “appendaglio”.

Lo scheletro è posto sopra un blocco cubico di colore ben più scuro di quelli visibili sulla parete di fondo ed in cui è infisso un grosso anello circolare. Le gambe sono stese e le mani poggiate sul bacino sono costrette da vincoli di metallo. Il busto lievemente reclinato così come la testa. Una brocca sbeccata giace sul pavimento alla sinistra del cubo di pietra che funge da sedile. Di questa, la citata letteratura non fa menzione alcuna.

Foto B) Il reperto, in posizione assisa, mostra il busto quasi eretto e frontale appoggiato all’angolo tra la parete di fondo ed il fianco della nicchia. Dalla cornice della finestra è stata rimossa la lanterna (essa è comunque – oggi – presente nell’allestimento, appesa alla parete sinistra della nicchia). Lo scheletro è seduto, gli arti in vincoli ma la testa, non più riversa, è in asse con il busto. La brocca giace sul pavimento alla destra del sedile e dello scheletro quasi in linea con il centro della soprastante finestra. Una eventuale considerazione viene in risalto dall’esame di altre foto presenti in rete; pur eseguite con la presenza di un vetro protettivo che nelle predette immagini non compariva, mostrano, in modo più definito, un curioso particolare già presente nell’immagine in cui compariva anche la lanterna appesa alla finestra. Precisamente, un foro quadrangolare presente nella muratura di fondo, sulla sinistra dell’immagine, lascia intravedere lo spessore della detta muratura che, sorprendentemente, pare di pochi centimetri, quasi si trattasse di un pannello decorato con i blocchi di pietra, di colore più chiaro rispetto al blocco usato come sedile. Del resto anche lo stipite della nicchia conforta questo tipo di osservazione.

Del resto, come si vedrà, la stessa scheda del museo che contempla la descrizione del reperto annota la presenza di uno scheletro posto entro un “cella riprodotta” o comunque di uno “scheletro conservato in una cella (ricostruzione)”, dato ben diverso da quello fornito dalla versione del D’Amelia per cui «[…] venne da Roma un’ispezione inviata dal Ministero di Grazia e Giustizia che ordinò la rimozione o meglio l’asporto radicale di quanto rinvenuto con le quattro pareti della cella, lavoro eseguito da abili esperti in materia. E tutto venne caricato e trasportato a Roma nel museo suddetto.».

Osservazione ed analisi dello scheletro

L’esame ravvicinato, seppur attraverso la lastra di vetro di protezione, ha permesso di constatare che le ossa sono congiunte a mezzo di filo metallico (anche in ottone) e la postura, apparentemente diversa da quanto emerge dalle notizie sopra analizzate, è mantenuta stabile mediante lamelle metalliche.

Un perno in metallo passante sotto il processo temporale (sotto il tubercolo articolare) e posto a contrasto tra l’osso temporale e la mandibola, mantiene quest’ultima in posizione serrata.

Lo sterno ed alcune parti cartilaginee della cassa toracica appaiono restituiti in cera o materiale plastico (colore giallastro).

Del pari, anche il colore delle ossa tendente al bianco ambrato per evidente perdita di sostanza organica per probabile esposizione ad ambienti secchi ed asciutti, quale la lunga esposizione in musei, ovvero in ambienti (o giaciture) basici in cui la base elimina la sostanza organica quali depositi rocciosi ad esempio connotati dalla presenza di carbonato di calcio che è il maggiore componente del calcare (contesti non infrequenti, appunto, nella Sabina) o della calce per le opere murarie. Sebbene la valutazione della colorazione non sia un indice univoco di valutazione diventa al contrario interessante il particolare per cui le ossa rinvenute a contatto con elementi metallici riportano le tracce e i segni delle ossidazioni: verdastre per rame o bronzo, brune per il ferro; le caviglie e polsi dello scheletro appaiono prive di tracce alcune che, verosimilmente, si sarebbero, al contrario, prodotte a seguito di una prolungata esposizione e contatto con il metallo dei vincoli. Ad ogni buon conto una delle prime attività di analisi che l’equipe aveva intenzione di svolgere era, logicamente, quella di effettuare una attenta ricognizione presso il museo criminologico di Roma, sia per acquisire documentazione relativa al reperto che per osservarlo attentamente da vicino e poi, al limite, effettuare dei prelievi di materiale osseo dello scheletro per effettuare una datazione precisa. Per tale motivo, uno dei due autori del presente saggio, Marco Strano, ha preso contatto con il Museo riuscendo a parlare telefonicamente (non senza difficoltà) nel settembre 2018 con uno dei responsabili, il dott. Luca Morgante, spiegando di voler effettuare una visita informale allo scheletro. Il funzionario, inizialmente prospettò “insormontabili difficoltà burocratiche” ma alla fine accettò di ricevere uno degli autori del presente saggio, Simone De Fraja, accompagnandolo personalmente con formale gentilezza e disponibilità nel museo e permettendogli la visione (senza però poter estrarre copie e scattare fotografie) del fascicolo relativo all’istallazione museale della Dama Bianca.

Per la precisione venne chiesto non solo di ispezionare lo scheletro ed il suo allestimento ma di visionare i documenti relativi all’acquisizione del materiale, ogni documento che illustrasse come, quando e perché fosse avvenuto quell’accessione.

Ci si aspettava di trovare una sorta di documento di consegna, di relazione sul ritrovamento ed il trasporto, magari qualche disegno od anche una foto. Il fascicolo presente nell’archivio del museo, in realtà è alquanto scarno, e contenente un verbale di presa in carico “…di uno scheletro proveniente da Poggio Catino…”; la cartella, almeno quella esibita, conteneva solamente due o tre foto dell’ambiente (non in cui venne rinvenuto lo scheletro ma di quello in cui fu allestito), alcune pagine di un dattiloscritto probabilmente ottenuto mediante carta–carbone o copiativa (macchina da scrivere, carta leggera e fuori formato standard). Il testo, una sorta di racconto/novella dai forti connotati fantastici ed ancora contrassegnato da ampie licenze letterarie, narra (anche a mezzo di discorsi diretti e dialoghi) la storia appassionata della donna [si sostiene fosse stata bellissima!] finita in catene a seguito di intrecci d’amore tra il signore di Poggio Catino e tal Geppo Colonna.

Tale romantica narrazione ha evidentemente ispirato ed alimentato tutta la letteratura ben più recente e, verosimilmente, influenzato poi anche il testo del D’Amelia. Ciò che preme evidenziare è che il dattiloscritto è a firma di Bartolomeo Rossetti, penna ben nota della tradizione popolare del Lazio; Rossetti si è spento nell’anno 2000. Nel corso della breve visita consentita a Simone De Fraja nei locali del museo è stato possibile comunque avvicinarsi all’installazione contenente lo scheletro con divieto di fotografia, nonostante il web contenga numerose foto della celletta e dei resti scheletrici sostanzialmente integri e senza perdite: insomma secondo “la versione ufficiale” venne rinvenuto a Poggio Catino e trasportato a Roma uno scheletro integro in ogni sua parte.

Davvero un colpo fortunato per Biraghi e per il neo museo criminologico all’epoca scarno di reperti. In realtà, l’esposizione della Dama Bianca, comprende anche una brocca frammentaria di cui, tuttavia, non si dà notizia nemmeno nella descrizione, anch’essa laconica e del solito tenore, che affianca lo scheletro; c’è quindi da dubitare si tratti di solo arredo suggestivo. Nello stesso pannello informativo, privo di alcuna nozione scientifica, si è tenuto comunque a precisare: “Provenienza: Poggio Catino, Famiglia Biraghi, 1934”.

La donazione dello scheletro al museo pare dunque riferibile all’anno seguente l’asserito rinvenimento. L’ispezione – seppur sommaria – della cella contenente lo scheletro, ha permesso di ottenere informazioni più concrete in merito alle vicende del ritrovamento dello scheletro anche ai fini di un miglior tentativo di identificazione e comprensione delle volumetrie della rocca di Poggio Catino e dei corpi di fabbrica, del contesto del ritrovamento (ambienti e materiali edili), sulla scorta delle indicazioni della letteratura sopra analizzata. Le informazioni ricavabili da tale consultazione sono comunque esigue. La scarna descrizione del reperto in mostra nel suo allestimento riporta esattamente che la cella è “riprodotta”, così come appare allo stato attuale.

L’esame della struttura, confermando quanto sopra ipotizzato, ha quindi rivelato che la cella in cui siede lo scheletro non è composta dai materiali reperiti sul posto a seguito di “un crollo di un torrione” ma è una semplice “cabina” in cartongesso o legno stuccato in cui sono riprodotti, scenicamente, i paramenti murari in blocchi mentre la griglia della finestra sembra oggettivamente in metallo. Si tratta dunque, sostanzialmente, di una riproduzione o ricostruzione scenica, così come onestamente affermato dalla scheda, di una verosimile condizione di prigionia allestita all’interno di un piccolo ambiente decorato e ricavato, mediante pannellatura.



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